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Forse non tutti sanno che lo scrittore Antonio Fogazzaro nel suo romanzo Piccolo Mondo Moderno del 1901 scrisse della villa che per anni i montegaldesi hanno chiamato Villa Roi. In effetti lo scrittore vi soggiornò molte volte dato che il nonno Luigi ne era proprietario. Alla morte del nonno, Antonio fece erigere un monumento (vedi la foto qui sotto) che riporta la seguente dedica: «IN MEMORIA DI LUIGI FOGAZZARO, SAVIO AUSTERO E PIO CHE QUESTI CLIVI APRICHI E IL PODERE CONGIUNTO GOVERNÒ CINQUANT'ANNI, NATO A DÌ PIÙ FELICI, A MAGGIOR SORTE, ANTONIO NIPOTE ED EREDE POSE. MCMVII».
Il romanzo Piccolo Mondo Moderno narra le vicende del vicentino Piero Maironi che Fogazzaro ambienta nei luoghi a lui familiari tra cui la villa Valmarana ai Nani, Palazzo Porto Breganze, la Piazza dei Signori di Vicenza e, senza farne riferimento specifico, la villa del nonno Luigi a Montegalda.
Il gusto pienamente romantico dell'opera di Fogazzaro lo porta a lunghe descrizioni particolareggiate ed estatiche che immortalano tutto il complesso della villa, gli edifici, il parco e il colle. Sotto le mentite spoglie della villa Flores ritroviamo in questo romanzo l'odierna villa Fogazzaro-Roi-Colbachini, l'annessa chiesetta, la specola, il grande parco col laghetto e anche i sentieri del monte Roccolo. Di questo, di questo gradito omaggio, dobbiamo ringraziare Antonio Fogazzaro.
Matteo Franzina
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Ecco alcune immagini della villa Fogazzaro-Roi-Colbachini. Cliccaci sopra per ingrandirle
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1ª serie di brani, Piero Maironi in visita a don Giuseppe Flores
Un servo tagliato all'antica introdusse nella sala del biliardo il signore che aveva chiesto di don Giuseppe.
«Il Suo nome, di grazia?» diss'egli.
«Maironi.»
Quegli andò in cerca del padrone.
L'uscio a vetri, che dalla sala del biliardo mette per cinque scalini al giardino della villa Flores, era aperto. Un languido sole d'aprile moriva sulla coperta grigia del biliardo e sul chiaro impiantito di abete. Entrava con l'aria tiepida un odor lieve della pioggerellina fine fine che si vedeva tremolar nel sole, annebbiar le campagne da lontano, sotto il cielo turchino. Il prato pendente in giro alla fronte dell'edificio alto e scoperto, i grandi alberi, che fanno ala quasi a un atteso corteo di principi, suggevano la pioggerellina dolce senza un bisbiglio. Così taceva la casa vuota. Lì nella sala le sedie addossate alle pareti, i pochi altri arredi simmetricamente disposti, il biliardo coperto, parevan tristi come cose morte che serbassero il ricordo della vita.
Il domestico non ritornava. Piero uscì sulla scalinata a guardar la pioggerellina muta, e un sentor debole di viole gli rese la visione voluttuosa del primo incontro con la persona che ora gli riempiva il cuore. La vide schiuder lentamente il mantello di pelliccia, mostrar il busto squisito, odorante di viola, il mazzolino degli scuri fiori alla cintura. Sentì lo sguardo intelligente, che gli aveva fatto allora dolere il petto, entrargli ancora e diffonderglisi con tanta dolcezza nella persona. «Non lo trovo, signore» disse il vecchio domestico alle sue spalle. «In camera non c'è, nella chiesetta neppure. Sarà sul monte, forse.» Soggiunse che sarebbe andato a rintracciarlo. Maironi non lo permise, prese egli stesso la via dell'umile poggio che sale dietro il cortile della villa, blando verso mezzogiorno e rigato per traverso di viti a filari, cui fende una sottile processione ascendente di cipressi; erto, boscoso verso occidente, allacciato da grandi maglie bizzarre di sentieri che ne legano il rotto carattere.
Per uno di quei sentieri Piero scorse calar il vecchio prete che cercava, don Giuseppe Flores, l'ultimo della sua famiglia, il solo signore della villa deserta, del poggio, dei bassi prati dove nel gran silenzio del mezzogiorno gurgugliavan tacchini, schiamazzavano anitre e oche, delle folte macchie di alberi esotici e nostrali che lì salivano i valloncelli e i dorsi del poggio fino al ciglio degli alti vigneti.
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Non pioveva più, blandi chiarori di sole mal nascosto nelle nuvole giallognole ravvivavano il giardino sonnolento, lucevano sulla umida gradinata della villa, dove don Giuseppe stava mostrando a Maironi con un sorriso triste la scena dei piani fumanti di qua sino ai grandi coni azzurrognoli degli Euganei, di là sino alla sottile parete soleggiata dei Berici, e il giardino da lui pensato, disegnato, gittato sul rustico piano e sul colle selvaggio, abbellito via via, d'anno in anno, vagheggiato nel suo futuro fiore non per sé, ma per dilette anime partite dalla terra, contro l'antivedere umano, prima di lui.
«Ecco» diss'egli accennando con una mano agli Euganei, «Praglia è là.»
Per venire da don Giuseppe, Maironi aveva detto in casa che si pigliava un giorno di riposo e che desiderava rivedere l'abbazia benedettina di Praglia.
2ª serie, la marchesa Nene in visita a don Giuseppe Flores
Don Giuseppe Flores pregava nella chiesina della sua villa, solo, immerso in una doppia visione. Gli avveniva spesso, sui sentieri del suo colle, di sostare meditando le profondità di Dio e insieme contemplando la bellezza magnifica e pia delle cose. Così adesso il suo pensiero si affisava nell'eternità santa, imminente, alta, oscura sopra la visione distesa della sua lunga vita arrovesciata per modo da mostrare la faccia interiore come la sola che valesse.
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Il trotto di due cavalli e ruote correnti suonarono sulla via davanti alla porta maggiore, chiusa, della cappella. Don Giuseppe udì trotto e ruote svoltare nel cortile della villa. Poco dopo il domestico venne ad annunziargli la marchesa Scremin.
Egli uscì a incontrar la marchesa sulla gradinata che sale dal cortile della villa. La vecchia signora, nobilmente vestita di nero, un po' più magra, un po' più rugosa e cerea del solito, si affrettava sugli scalini faticosi per ossequio al vecchio prete che alla sua volta, per ossequio a lei, si affrettava sulla discesa malfida. Don Giuseppe non osava né ringraziare né mostrar letizia per una visita ch'era presuntuoso attribuire a semplice cortesia e non temerario, pur troppo, attribuire a qualche cagione poco lieta. La marchesa gli aveva parlato, in città, di certa iscrizione da far incidere in una medaglia, l'aveva pregato di dettarla, di commetterne il lavoro all'artefice; ma non era possibile che fosse venuta per questo.
Dal canto suo la marchesa pareva infervorata a coprire il fine della sua venuta con un arruffìo di frasi mozze e incongrue, di complimenti sull'aspetto florido del vecchio, del suo giardino, sulla bellezza del laghetto giallognolo, ingrossato dalle pioggie recenti, e di certe oche, sue tronfie navigatrici; le quali la condussero a parlare delle anitre che teneva lei e dei taglierini al brodo di anitre e dei gusti di Zaneto cui non piaceva l'oca. Don Giuseppe sorrideva ...
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«Ecco le oche» diss'ella con la sua serenità blanda nell'appressarsi al microbo giallognolo e inquieto che si pigliava con beata vanagloria il nome di lago. «Ecco le oche. Le xe àrene.» Don Giuseppe le spiegò pazientemente che le oche non erano anitre, che i suoi palmipedi erano un duplice popolo.
In quel momento un languido raggio di sole avvivò la scena pastorale, le acque inquiete, il gruppo di pioppi tremoli che le fiancheggia, il verde ovale della prateria cui l'obliquo poggio boscoso e una diga di alta verzura corrono a chiudere insieme in uno sfondo nero di abeti. Quel tale grosso nervo paralitico della marchesa si contrasse un poco. «Belo» diss'ella «don Giuseppe, el cossa xelo, el prà.»
Don Giuseppe non rispose. Contemplava. Quel posto del giardino era il suo prediletto. Aveva sognato un tempo giuochi e risa, nella prateria, di bambini del suo sangue, nipoti e pronipoti. Adesso, ammirando con la sua perenne freschezza di spirito i capricciosi amori della luce e del verde, ripensava il proprio testamento, fatto da pochi mesi, dopo lunghe incertezze e meditazioni, la villa e il podere diventati residenza e ricchezza di sei vecchi parroci della diocesi e di sei vecchi medici condotti della provincia, imponenti e bisognosi; immaginava i suoi eredi squallidi a passeggio nel prato.
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